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Luciano Modigliani, testimone della follia nel campo di sterminio

Cronaca

Luciano Modigliani, testimone della follia nel campo di sterminio

I ragazzi della scuola De Filippo scrivono sul proprio braccio il numero da deportato di Luciano Modigliani

Per Luciano Modigliani, il 25 aprile 1945 è stato un giorno come gli altri, trascorso al limite della sopravvivenza. Prigioniero nel campo di sterminio di Bolzano, nutriva qualche speranza grazie alle notizie comunicate dai partigiani, che raccontavano l’avanzata degli Alleati in Italia. Il campo nel quale era stato deportato è stato raggiunto dagli americani e dal Comité International de la Croix-Rouge tre giorni dopo, il 28 aprile. Di quel giorno, nonostante siano passati 71 anni, Luciano ricorda «tutto chiaramente, come se fosse successo ieri», dai volti sconosciuti dei soldati americani, al pane e alla cioccolata che non era neanche riuscito ad assaggiare tanto era lo stupore di vedersi finalmente libero.

Paura di non essere creduto
Luciano ha iniziato a raccontare la propria storia solo dopo essersi trasferito a Brugherio, nel 2001, su consiglio dell’ex sindaco Carlo Cifronti. Prima infatti temeva «di non essere creduto, tanto abominevoli e aberranti sono i fatti accaduti». Da quel giorno si reca nelle scuole a raccontare la propria esperienza, testimone vivente della follia nazista. Ricorda ancora in modo dettagliato il giorno del 1944 in cui, a soli 15 anni, fu arrestato insieme ai suoi genitori a Milano dal capitano di una banda fascista, che era a conoscenza delle origini ebree della famiglia. Riuscito inizialmente a scappare e a ripararsi presso una cugina, venne poi nuovamente arrestato, probabilmente a causa di una delazione: «In quel periodo chi denunciava alle SS la presenza di antifascisti, partigiani e ebrei era ricompensato: la mia vita valeva 500 lire».
Altri suoi parenti furono deportati e uccisi nei campi di Auschwitz e Mauthausen, tra i quali ricorda in particolare una cugina di soli 23 anni.

Dita rotte a San Vittore
Portato al carcere di San Vittore, venne a lungo torturato e gli furono spezzate due dita delle mani: i nazisti volevano sapere dove si trovavano i suoi fratelli maggiori che si erano uniti ai partigiani. Luciano non fornì queste informazioni e pochi giorni dopo venne condotto alla Stazione Centrale per essere deportato. Dal binario 18, stipato in un vagone insieme ad altre 75 persone, iniziò il suo viaggio disumano verso il campo di Bolzano. Era stato concepito come campo di smistamento, ma dopo i bombardamenti americani del Brennero, che avevano causato l’interruzione dei collegamenti ferroviari con la Germania, era diventato a sua volta un campo di concentramento. Arrivati al campo i deportati, per la maggior parte ebrei, dissidenti politici, zingari e omosessuali, venivano spogliati di tutto ed era dato loro come vestito un sacco di iuta a righe. Qui Luciano ritrovò i suoi genitori e conobbe numerosi prigionieri, alcuni erano stati personalità di spicco, ma «ci si dava tutti del tu, fratelli nella disgrazia più grande».

Diventare un numero: 7359
«Non si può dire come ci trattavano le SS naziste – continua Modigliani: eravamo valutati meno degli scarafaggi e dei topi, non avevamo più un nome ma un numero. Il mio era 7359». La vita al campo era aberrante. I prigionieri erano costretti a lavori estenuanti tutti i giorni dall’alba al tramonto, nonostante il freddo. La fatica e la mancanza di cibo li consumavano. Luciano entrato nel campo pesava 59 chili; quando è stato liberato, solo 28. Anche durante la notte era tormentato dalle pulci e dai pidocchi ma cercava di dormire perché, dice, «i bei sogni che facevo in quelle ore mi davano un po’ di sollievo». Numerosi sono poi gli episodi che dimostrano la crudeltà dei soldati nazisti, che uccidevano e torturavano senza motivo tutti i prigionieri, perfino i neonati.
Dopo essere sopravvissuto a questo inferno, Luciano, attraverso la propria testimonianza, vuole fare in modo che tutti vengano a conoscenza di ciò che è accaduto.

«La solidarietà e il rispetto del prossimo, di qualsiasi razza e colore della pelle, è vita. […] Queste preziosità vanno dunque protette, tramandate, valorizzate e divulgate per rompere il muro dell’indifferenza che spesso si crea di fronte agli orrori del passato, come l’olocausto e il massacro delle Foibe. Se si perde il sentimento dell’indignazione, si perde la propria dignità di esseri umani: non è permesso dimenticare».

di Eleonora Fraschini

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