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È morto don Riboldi, dedicò la vita a portare il Vangelo ai Rom
Quel cappello nero, il corpo curvato dall’età, gli occhi vispi e il sorriso sempre sul volto. Mons. Mario Riboldi, “il prete degli zingari” si notava, tra i sacerdoti di Brugherio. Eppure era schivo, aveva scelto di vivere con i nomadi e come i nomadi, in una roulotte in un campo di via Quarto, vicino all’entrata della tangenziale Est.
È morto mercoledì 9 giugno in ospedale a Varese a 92 anni, ma fino a pochissimo tempo fa non era raro vederlo in città, in chiesa durante i tempi forti dell’anno.
«È stato un testimone evangelico – lo ricorda il parroco don Vittorino Zoia -, un profeta che ha condiviso la vita con quelli che Papa Francesco definirebbe “gli scartati”». La sua vita, e oggi il suo ricordo, per don Vittorino sono «un segno per noi. Ci ricordano di non farci attirare mai dalla cultura dello scarto e dell’indifferenza». La presenza di don Riboldi a Brugherio, prosegue, «è stata discreta, mai gridata. Era uomo di preghiera: il suo esempio deve essere di richiamo alla Chiesa e alla società».
La pastorale per i rom, ci raccontava in un’intervista del 2010, non è di tipo parrocchiale, ma missionario. «Hanno bisogno del primo annuncio – diceva don Riboldi – non perché siano “indietro”, ma perché la Chiesa non li ha considerati molto. Lentamente, ora, stiamo cercando di portare loro la Parola di Dio».
Lui ha dedicato la vita a questo annuncio: ordinato sacerdote nel 1953, don Riboldi cominciò ad incontrare i nomadi della periferia milanese. Accolto e apprezzato dall’allora cardinale Montini e quindi futuro papa Paolo VI fu tra i promotori del primo e storico incontro della Chiesa Cattolica con Rom e Sinti a Pomezia il 26 settembre 1965. Dal 1971 al 2018, per 47 anni, è stato incaricato diocesano per la Pastorale dei Nomadi. Ha tradotto vari capitoli della Bibbia, i Vangeli, testi liturgici nelle varie lingue Rom.
«Scompare – commenta il presidente di Caritas Ambrosiana, Luciano Gualzetti – un prete che ha saputo vivere con radicalità la testimonianza del Vangelo e un punto di riferimento per la comunità rom. La sua scelta di farsi povero tra i poveri, di vivere come un rom, pur non essendolo, è stata una provocazione anche per molti credenti, costretti dal suo esempio a interrogarsi sui tanti luoghi comuni di cui questo popolo è ancora vittima e ostacolano, purtroppo, la sua piena integrazione».
In occasione del funerale, celebrato a Biassono, è stato letto un messaggio inviato dall’arcivescovo, mons. Mario Delpini, che dice tra le altre cose: “Ha seminato. Non ha preteso di raccogliere, non ha calcolato i risultati. Eppure ha raccolto rivelazioni di santità proprio là dove il pregiudizio rivolge uno sguardo di discredito generalizzato”.
Vogliamo concludere il suo ricordo con le parole che ripeteva spesso e che aveva sottolineato in quell’intervista del 2010. Affermava che entrare nella vita dei rom e capirli non è semplice e forse neanche indispensabile. Ciò che serve, diceva, è la disponibilità all’incontro «superando i pregiudizi. Dieci anni fa li chiamavamo “nomadi”, oggi “rom” e “sinti”. Ma diciamo queste parole pensando sempre “zingari”, nel senso più negativo del termine. Eppure, tra loro ci sono anche dei beati e, sempre più, dei sacerdoti».
Il Quotidiano La Repubblica, tra i tanti, aveva dedicato due articoli a don Riboldi: li potete leggere cliccando qui e cliccando qui.