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L’intervista: Un premio per il Gufo Roberto Brivio, storia in musica del cabaret italiano
Concittadini illustri ne abbiamo? Certamente, uno di questi è Roberto Brivio, 82 splendidi anni vissuti intensamente all’insegna dell’arte e dello spettacolo, con un forte senso di appartenenza meneghino, che ancora oggi esprime attraverso gli articoli in dialetto milanese che scrive per il quotidiano Il Giorno. Roberto è stato uno dei quattro componenti dei Gufi, che negli anni Sessanta hanno dato origine al filone demenziale della canzone. Un artista a 360 gradi che si è occupato tra le altre cose di sceneggiatura e regia teatrale, televisiva e radiofonica, di canzoni, di cabaret financo di giornalismo, campo in cui mosse i suoi primissimi passi insieme a Gigi Vesigna. Da 23 anni vive a Brugherio e di recente gli è stato assegnato un prestigioso premio alla carriera.
Ci racconta come ha avuto inizio la sua carriera?
La mia carriera è cominciata all’accademia di arte drammatica, successivamente incisi dei dischi non di canzoni, ma di prosa. Dapprima si trattava di favole, poi scrissi io stesso delle sceneggiature per l’etichetta Ricordi. Appena queste registrazioni uscirono le mandai al direttore della Rai di allora, Ettore Bernabei, che mi convocò a Roma, così iniziai a lavorare in radio. Contemporaneamente scrissi delle canzoni, che uscirono col nome di Roberto Bi, per la Emi, che in pratica in seguito diventarono le principali canzoni dei Gufi.
Come nacquero i Gufi?
I Gufi furono una esigenza intellettuale del momento. Negli anni sessanta stava salendo nuovamente alla ribalta la canzone popolare, nel 1962 nasceva tra l’altro il cabaret e proprio in quel periodo io lavoravo al Derby, a Milano. Conoscevo Lino Patruno, che a sua volta mi presentò Nanni Svampa, io invece feci conoscere a loro Gianni Magni, così formammo il quartetto. Fu Bruno Verri, il maggiore impresario dell’epoca, che quasi ci impose di incidere un disco con una casa discografica semisconosciuta, la Combo. Sorprendentemente ebbe enorme successo, la canzone demenziale era una grossa novità.
Cochi e Renato seguirono poi la vostra stessa strada
Negli anni sessanta conducevo un programma alla tv svizzera e loro furono tra i primi ospiti, vennero a cantare “El portafoi”. Non posso dire che ci abbiano copiato, però mi spiace che noi Gufi citiamo spesso loro, ma loro non citano mai noi. Chissà perché? Comunque credo che I gatti di vicolo miracoli o I Monatti, fecero canzoni più simili alle nostre.
Elio e le storie tese non potrebbero essere i Gufi in chiave moderna?
In un certo senso sì, ma loro soprattutto agli esordi ricorrevano a un linguaggio più sboccato rispetto al nostro. Nacquero più o meno al tempo della seconda separazione dei Gufi, a inizio anni ottanta. La differenza più grande credo riguardi l’aspetto musicale, perché sono tutti e quattro musicisti di un certo livello, mentre noi avevamo soltanto la chitarra di Patruno e il contrabbasso di un professore che stava sempre dietro le quinte, come accompagnamento.
Prima citava il Derby, fucina da cui uscivano i migliori artisti allora, è corretto?
No, non proprio, a parte Enzo Jannacci gli altri erano pressoché sconosciuti. Lì cantavo le canzoni macabre come ad esempio “Vorrei tanto suicidarmi” e “Va’ longobardo”, da questo si intuisce come gli spettacoli fossero di successo, ma in gran parte sperimentali quelli del Derby, rivolti a un pubblico di nicchia. Gli stessi De Andrè e Guccini erano sconosciuti ai più. Solo successivamente, quando si politicizzarono, divennero celebri.
Lei è un artista a tutto tondo: le canzoni, il teatro, la scrittura, la radio, la tv. A quale mondo sente di appartenere di più?
Le faccio una confessione, ho una grande passione per la prosa classica. Ho curato la regia di alcuni spettacoli di Pirandello e Shakespeare, adesso sto preparando proprio “La Tempesta” di Shakespeare, tradotta per metà in milanese e l’altra metà in napoletano. Spero ne esca un colossal. Mi piacerebbe anche recitare all’interno di questi spettacoli, purtroppo fatico a ricordare le battute a 82 anni. Pensi che a questo proposito, ho inventato il cabaret letterario dove gli attori recitano col copione in mano, solo per favorire me stesso. Ho notato che se riesci a coinvolgere il pubblico con la recitazione, ad un certo punto il copione non si vede più.
Lo scorso 30 agosto ha ricevuto un premio alla carriera.
Sì a Sirolo, vicino ad Ancora, ho ricevuto il premio Franco Enriquez, che è stato uno dei più grandi registi teatrali del nostro Paese. Un riconoscimento ad una carriera, la mia, fatta tra le altre cose di una ventina di dischi, dell’apertura di ben 8 teatri a Milano tra i quali La scala della vita, l’Ariberto e il Cristallo, dove scritturai per la prima volta in Italia il “Rocky horror picture show”, e con 12 libri pubblicati. Ne vorrei scrivere un altro e intitolarlo “Mi hanno rovinato i Gufi”, perché per tutta la mia vita ho pensato a come tenerli insieme, riuscendoci solo in parte. Avrei potuto pensare di più a me stesso.
Lei vive a Brugherio da molti anni, è felice di stare qui?
Brugherio è la città di mia moglie, ci trasferimmo qui nel 1997. Ci sto bene anche se devo dire non senza disappunto che purtroppo non c’è stato mai modo di mettere in scena un mio spettacolo al Teatro San Giuseppe, questo per me è fonte di grande dispiacere.