Cultura
Sinni Ricci, un violino dalla scuola Piseri al Royal college di Londra
Giovani talenti crescono e dopo aver frequentato la Scuola di Musica Luigi Piseri di Brugherio si ritrovano a suonare nei grandi College in giro per il mondo. È il caso di Sinni Ricci, violinista che si è trasferito a Londra perché è stato ammesso al prestigioso Royal College of Music. Un percorso che ci racconta lui stesso.
di Sinni Ricci
Dopo aver concluso il percorso in Fondazione Piseri con Piercarlo Sacco e il triennio con Gabriele Baffero al Conservatorio di Milano, nel settembre del 2019 mi sono trasferito a Londra per studiare con Jan Repko al Royal College of Music. La mia scelta è stata motivata soprattutto dall’interesse per l’insegnante, che conosco da qualche anno, e dal suo invito a venire in Inghilterra, ma sicuramente anche l’offerta formativa dell’università mi ha reso più semplice la decisione.
La prima sensazione che ho avuto all’entrata è che la struttura, intesa come istituzione, accolga e faccia il possibile per agevolare la crescita degli studenti: nei primi mesi ho ricevuto dalla scuola una borsa di studio (Henry Wood Trust Award) e un nuovo violino in prestito, costruito dal liutaio inglese George Wulme Hudson nel 1920, che è stato davvero importante perché ha reso possibile una ricerca del suono prima più difficoltosa e in generale ha cambiato in meglio il mio approccio al suonare.
L’organizzazione dei corsi nelle università musicali inglesi, poi, ha una articolazione diversa da quella italiana: mentre questa somma alle lezioni di violino una quantità consistente di altri esami teorici, i master inglesi spostano il peso in modo deciso verso le lezioni di strumento e prevedono solo altri due esami annuali, scelti da una lista che include materie “classiche”, come Analisi musicale e Musica da camera, ma cerca anche di andare incontro a interessi più specifici, che vanno dalla composizione elettroacustica al basso continuo, con una particolare attenzione al repertorio e alle prassi esecutive contemporanee.
Per esempio, a Milano avevo già seguito un corso di “ear training”, studiato per migliorare e ampliare le capacità dell’orecchio musicale, ed è parso naturale poter proseguire questo percorso scegliendo, nell’anno appena trascorso, una materia che in italiano suona più o meno “abilità uditive avanzate applicate a contesti professionali” e consiste nel potenziare ulteriormente queste capacità, ma soprattutto testarle in situazioni realistiche, come ad esempio l’ascolto e la valutazione di veri esami di pianoforte (registrati), con tanto di tabella per i voti, piuttosto che la trascrizione di musiche non occidentali.
Attratto dalla inclinazione “pratica” di questo piano di studi, ho scelto inizialmente il Master of Performance, che corrisponde al profilo sopra descritto e permette di concentrarsi davvero molto sullo studio dello strumento perché lascia una quantità di tempo a cui venendo dall’Italia non ero abituato. Se all’inizio poter studiare tutto il giorno dà grande senso di libertà, sul lungo termine mi ha fatto pensare a come poter arricchire la vita universitaria e trarre il massimo dall’opportunità di studiare all’estero.
Per questo sono passato al Master of Music in Performance, che prevede all’incirca lo stesso impegno in sede (e quindi non toglie tempo in modo significativo allo strumento) ma sostituisce uno dei due esami con attività di ricerca in campo musicologico e prevede una tesi breve alla fine del primo anno e un progetto più consistente alla fine del secondo e in questo senso è un percorso che si avvicina al biennio italiano. Inoltre, è il master che ha la sua logica prosecuzione nel dottorato, titolo normalmente richiesto per insegnare nelle università musicali estere.
Per quanto riguarda le attività musicali d’insieme, il college incoraggia a mettersi in gioco: a tutti è data la possibilità di ricevere lezione illimitate da uno o più insegnanti con i quali ci si accorda. Si è chiamati molto spesso a confrontarsi con i compagni: è prassi comune che gli insegnanti organizzino settimanalmente dei saggi-lezione aperti solo alla classe in cui, oltre all’insegnante, anche i colleghi sono chiamati a dare pareri e contributi. Sono estremamente utili perché danno la possibilità di suonare continuamente in pubblico, ma in un ambiente “protetto” e rafforzano le relazioni personali. In generale, è molto stimolante anche il programma di concerti degli studenti in cui ci si può inserire, che va da slot di 25 minuti all’ora di pranzo, disegnati per dare a tutti la possibilità di “provare” i pezzi studiati, magari in vista di appuntamenti più importanti, fino a concerti in sale come la Royal Albert Hall e la Wigmore Hall.
Un momento importante del percorso conservatoriale sono le produzioni orchestrali, perché danno occasione di conoscere nuove persone e di praticare repertorio a volte inedito altre molto noto, e che per questo è appunto utile frequentare appena possibile: nel corso dell’anno passato si è vista una intera settimana di concerti dedicati a Mark-Anthony Turnage, tra i maggiori compositori inglesi viventi, ma anche la prima Sinfonia di Mahler, la quinta di Beethoven, la prima di Brahms. In questo senso, la fortuna di trovarsi in una scuola così viva è che dà la possibilità di studiare questi capolavori con direttori di riferimento, come Kirill Petrenko, Antonio Pappano o Bernard Haitink.
All’inizio di ogni anno si tengono delle audizioni per stabilire le posizioni in orchestra dei primi mesi, che hanno il doppio pregio di essere indicative, ma non vincolanti (attraverso il fitto calendario di performance più o meno pubbliche è possibile seguire la crescita di ciascuno, ed eventualmente rivederne la collocazione) e di inserire in quelli che vengono chiamati “schemes”. Questi meccanismi mettono in comunicazione la scuola con orchestre come la London Symphony Orchestra e la BBC Symphony Orchestra e attraverso ulteriori selezioni permettono ad alcuni studenti di partecipare come aggiunti a produzioni di queste importanti compagini.
Dal punto di vista personale essere a stretto e continuo contatto con persone da tutte le parti del mondo è una sfida di adattamento ad usi e costumi di non sempre facile lettura, ma nel complesso è una bella occasione di crescita e apertura.