Comunità Pastorale
Volontari senza pregiudizi nelle solitudini del carcere
Fare volontariato in carcere è un’esperienza che cambia la vita. Di certo è quanto è accaduto a Michela Tribuzio, brugherese, che fa parte dell’Associazione Carcere Aperto. A lei abbiamo chiesto le ragioni di questo impegno.
Com’è nata l’esperienza di volontariato in carcere?
La mia esperienza di volontariato in carcere è nata in seguito ad una richiesta, del tutto inaspettata, da parte di don Daniele Turconi: c’era la necessità di trovare persone per la catechesi in carcere. In quel momento non ho pensato a cosa avrebbe voluto dire, questo servizio; non ho pensato al mondo del carcere, peraltro del tutto sconosciuto e distante. Ho solo pensato: “Lo posso fare? Ho tempo ed energie per farlo?” .
L’11 aprile la cena di raccolta fondi
Con chi ha condiviso la scelta?
Mi sono presa qualche giorno per parlarne in famiglia e dopo aver avuto l’approvazione di mio marito, che ha sempre visto questo, come un servizio da privilegiare, mi sono messa a disposizione.
Naturalmente, il servizio non consisteva e non consiste “solo”, si fa per dire, nell’ora di catechesi settimanale, ma, anche nel giro delle celle, per incontrare conoscere e relazionarsi con le persone ristrette della sezione.
Cosa significa impegnarsi in questo volontariato?
Essere vicini a persone che vivono una condizione di solitudine. In carcere, proprio per il fatto di essere lì, e per le condizioni in cui si vive, spesso senza colloqui, lontano dagli affetti, questo bisogno è ancora maggiore. È una questione di umanità.
A chi consiglierebbe l’esperienza?
Lo consiglierei a tutti: perché abbiamo bisogno di una conversione del cuore.
Però bisogna essere onesti: non tutti potrebbero essere adatti al servizio di volontariato in carcere, perché il carcere non è uno zoo, che si va a visitare. Anche in carcere le persone sono “sacre”. Bisogna entrare senza pregiudizi, con cuore libero e grande, in umiltà.